Né apocalittici né integrati: La III via esiste

di Michela Nacci 

Nel guardare al mondo in cui viviamo, gli osservatori privilegiati di cui abbiamo a disposizione analisi, testimonianze e giudizi, appartengono generalmente alle scienze umane: sono storici, sociologi, filosofi, antropologhi, e magari urbanisti, psicologi, letterati. Mai o quasi mai appartengono alle scienze "dure": quelle considerate scienze per antonomasia. Stavolta accade invece che a gettare il suo sguardo sul mondo sia uno scienziato. Di tipo peculiare, però. Insegna informatica, si occupa di comunicazione, di teatro, scrive romanzi e racconti. Qual è l’immagine della realtà  che ci circonda che ci restituisce questo sguardo? E in che cosa essa è diversa da quella prodotta dagli umanisti appena citati? Ho scritto un paio di settimane fa che l’alternativa ricorrente, paralizzante, nella quale siamo presi quando tentiamo di osservare il nostro mondo è, da un cinquantennio a questa parte, quella fra apocalittici e integrati.

Gli apocalittici vedono i mali (del clima, della globalizzazione, della omologazione, dell’abbassamento della cultura, della fine della civiltà) e li interpretano come una perdita secca. Gli integrati vedono gli stessi mali, ma li interpretano come una circostanza storica, un ciclo che ne ripete altri già verificatisi, un passaggio da compiere, un momento, una fase, qualcosa che sarà recuperato in futuro. Per gli apocalittici la fase che attraversiamo è definitiva, anzi terminale; per gli integrati non è che una transizione e, come tutte le transizioni, destinata a passare. Gli apocalittici vedono nel momento storico al quale guardano un significato astorico, sovratemporale, in qualche modo eterno, rivelatore di una verità accessibile solo a chi si ponga in posizione critica e accetti di coglierla. Gli integrati non riconoscono nel trascorrere delle epoche altro significato che quello del mutamento costante: mutamento dei valori, dei fini, dei risultati raggiunti dall’umanità. Gli apocalittici non credono che l’avanzare del tempo porterà con sé la soluzione dei mali (se non altro perché sostituirà altri mali a quelli attuali), a differenza degli integrati, per i quali la storia non può che essere accettata in ogni sua parte, anche negativa. Gli apocalittici inseriscono gli eventi in filosofie della storia catastrofiche, pessimiste, decadenti: leggono nei fatti più disparati un significato unitario, dispongono i significati in una stessa direzione, che non procede verso il meglio. Gli integrati si sforzano di non collegare fra loro eventi dalla forma similare, e se trovano una linea coerente per il corso degli eventi, questa risponde a una logica che è quella di uno sviluppo progressivo. Per gli apocalittici l’idea del progresso è pura illusione, velo che copre la realtà e che va squarciato per vedere meglio, per vedere davvero. Per gli integrati ciò che contraddice il percorso progressivo non è che accidente, sosta, pausa, eccezione, dettaglio rispetto alla direzione che complessivamente il mondo segue.

Giuseppe O. Longo offre con questo libro il tentativo di prendere sul serio le caratteristiche che gli apocalittici utilizzano per descrivere il mondo attuale e finendo per servirsene più come una invettiva che come un giudizio: ma lo fa senza cadere nell’alternativa (che sarebbe stato assai facile percorrere) rappresentata dagli integrati. Una posizione davvero inusuale. Considera il nostro un mondo globalizzato: ma non fa derivare da questa considerazione un giudizio di fine dei tempi. Contempla fra le possibilità che la storia ha offerto in passato quella della chiusura di un ciclo: ma non attribuisce al presente questa posizione in modo scontato. Ritiene che la comunicazione planetaria impoverisca lo stile e il contenuto dei rapporti che intratteniamo reciprocamente: ma non ritiene che si debba (o si possa) tornare alle piccole patrie. Sa bene (per aver dedicato a questo tema altre opere) che la presenza massiccia del computer nella nostra vita ha conseguenze di rilievo: ma non crede possibile né auspicabile un mondo privo di macchine. Sa che la scienza ha la brutta tendenza a fuoriuscire dai suoi limiti: ma non crede che vada per ciò stesso abbandonata. E’ consapevole che la scienza non è formata solo da materiali "puri", già pronti per essere inseriti in una teoria formalizzata, sa che elementi spuri ed estranei come l’immaginazione, la retorica, la religione, l’ideologia, il senso comune, i paradigmi vigenti in un’epoca o in un settore disciplinare, ne fanno parte a pieno titolo e contribuiscono in modo essenziale alla nascita delle sue teorie: ma, invece di accusare la scienza (come l’apocalittico spesso finisce per fare), invita a considerarla in modo più complesso, ambiguo, sfaccettato, umile. Vede che si è passati da una cultura di élite a una cultura di massa; ma non legge questo passaggio solo in negativo. Scrive: "Uscendo dalla piccola cerchia dei grandi filosofi e dei grandi scienziati, che detenevano il monopolio della riflessione, il pensiero è divenuto meno astratto, ha incorporato gli accadimenti quotidiani, si è intessuto di piccole storie individuali, si è guardato allo specchio della politica pratica, della scienza applicata. Tutto ciò ha contribuito a sfatare alcuni miti: il mito del progresso, della scienza buona (o dello scienziato benefattore dell’umanità), della sacralità dello specialista, della colpevolezza della tecnologia, capro espiatorio di tutte le nefandezze, che non possono certo essere ascritte all’angelica purezza della scienza di base."

La letteratura, il teatro, che assumono la narrazione in modo esplicito come loro strumento espressivo, sono spesso più direttamente in grado di parlarci del momento che viviamo restituendocene il senso: più del trattato, dell’opera specialistica, del sistema. E’ per questo motivo che è attraverso l’opera d’arte che talvolta riusciamo a capire qualcosa del passato. Longo propone di farlo anche per il presente, senza attendere che la polvere dei secoli ricopra quelle testimonianze. E invita, come la storiografia sta facendo da alcuni anni, a estrarre e valorizzare la parte di narratività implicata anche dalle scienze più dure. E’ chiaro che l’obiettivo polemico di una posizione come questa è lo scientismo: non tanto la scienza in sé, ma l’uso ideologico, distorto, eccessivo che se ne fa. Del resto, lo scientismo è solo l’altra faccia del rifiuto sprezzante della scienza, della tecnologia, dei saperi specialistici, da parte di una cultura umanistica che si considera la cultura tout court.

Ci sarebbe bisogno di un maggior numero di letture come queste per catturare il nostro tempo: questa difficile, complessa, estrema modernità. A rendere rara, eccezionale, la loro presenza è, insieme ad altre cause, la divisione in due della nostra cultura fra un sapere umanistico e un sapere tecnico-scientifico che non hanno fra loro che rapporti scarsi e occasionali, spesso improntati all’antipatia piuttosto che alla collaborazione: le competenze e le passioni di Longo, che si distribuiscono equamente fra scienze e scienze umane, fra teoria e narrazione, non solo non lo ostacolano nella sua riflessione, ma rendono quella riflessione possibile. Gli consentono di mostrare un uomo sempre bisognoso di illusioni, anche quando tali illusioni provengano dalla scienza. E’ solo se si esce dalla opposizione fra apocalittici e integrati che ci si può avvicinare al nostro mondo senza condannarlo né esaltarlo ma semplicemente cercando di comprenderlo.

G.O. LONGO, Il senso e la narrazione, Milano, Springer, 2008

Tratto da:

http://www.loccidentale.it/articolo/la+terza+via+esiste+e+non+%C3%A8+poi+cos%C3%AC+lontana.0052921

 

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